Giovanna Marini - La nave (è una pura formalità) Text

Songtext zu La nave (è una pura formalità)


In treno

L'Italia in lungo e in largo
Quest’anno ho attraversato
Al nord il benessere è davvero disperato
Al sud ti colpisce l’improvvisa sensazione
Di essere piombato in un’altra dimensione
L'Italia è tutta come un grande monumento
Mezzo di terra e mezzo di cemento
Nel cemento gli uomini stanno infilati
Come nel girone degli stupidi beati
Non fanno più risalto, coperti dallo smalto
Mentre nella terra si articolano ancora

Anche se mangiati, corrosi e consumati
Come i fichi sull’albero quando hanno le api dentro
Anche se sanno che ogni movimento
Può portarli a finire dritti nel cemento
«Bella cosa, signora», mi diceva un omone
Sul treno che correva verso Agrigento
«La buona famiglia, l’educazione e il nome:
Questo fa che per forza la moneta cascherà
Con la testa di qua e con la croce dillà
Mi permetta, sono il barone Barillà»
Poggiava su una grande valigia accovacciato
Un piede sulla porta della ritirata
Una mano aggrappata al ferro del corridoietto
Pareva un moderno crocefisso in un diretto
«Qui non è questione di danaro, signora
Qui è solo questione di predestinazione»
Il treno rallenta: Agrigento stazione

In Romagna si gioca a briscola e a scopone
In toscana c’è la tombola del sabato sera

«Noi fatichiamo qui al settentrione
Se l'Italia qui finisse noi staremmo benone
Vede, uno si sente come sistemato
E, anche se non è proprio come voleva
Ora si accorge con soddisfazione
Che c’è chi non ha i soldi manco per mangiare
Mentre lui al cinema ogni giorno ci può andare
E creda pure a me, cara la mia signora
Anche se si sente, come dire, un po’ costretto
Pensare a questo fa dimenticare ogni dolore»
Diceva intoppando un coltivatore diretto
Mentre mi parlava era in un bagno di sudore
Per la gran fatica la sua voce era in falsetto
Non trovava le parole, finalmente ha detto:
«Sa, sono concetti difficili da spiegare
Mi deve capire, io non ce la posso fare»

A Bologna, finalmente, trovo un posto a sedere
Un canuto, bianco e irascibile signore
Parla dando grandi pacche dottrinali
Sulle gambe accavallate di un giovane occhialuto
Che lo ascolta con orecchio riverente ed evoluto
I militari dormono e cascano in avanti
Il vecchio continua, osceno e vociferante:
«Cos’è la differenza fra teoria e sistema?»
L’altro lo guarda proprio entusiasmato
«Ci credi, gli studenti non me lo sanno più dire
Io mi domando: dove andremo a finire?»

La nave

Siamo in alto mare
Su una nave che vola sicura
La guarda il capitano
Col berretto e in mano il cannocchiale
Tiene lontano il male
La ciurma dorme, l’uomo veglia al timone
La stella polare
Non smetterà più di brillare
Ogni mattina, al levarsi del sole
La ciurma prepara il rito vitale per la giornata
Il capitano sta sul ponte, fermo come una statua
E guarda lontano col cannocchiale in mano
La ciurma, tenendosi per mano
Compie un gran giro
Attorno al capitano e guarda fisso il sole
Fino a quando non lo può più sostenere
Sono soli nel mare, sono
Soli nel mare
Poi, con gli occhi vuoti di luce
E pieni di grandi cerchi neri
Sempre guardando lontano
Toccano il capitano, il berretto, le vesti, la mano
Infine buttano un uomo in mare
Uno di loro, scelto a sorte ogni sera
Prima di dormire
Questo tiene lontano la tempesta
Favorisce un‘abbondante pesca
Il capitano lo guarda affogare
Tenendogli le mani sulla testa
La ciurma assiste, poi va a lavorare
Il capitano dà ordine di fermare
Buttano l’ancora e la nave dondola pian piano
Scendono con le barche
Che incomincia a crescere il sole
Affondano le reti in mare
La sera ritornano alla nave
E tirano a sorte per sapere
Chi è quello che deve
Morire per garantire una giornata
Uguale a quella passata
Sono soli nel mare
Il capitano, con il berretto
E in mano il cannocchiale
Tiene lontano il male
Tiene lontano

Nella ciurma c’è un ragazzo
Giovane, bello e bruno, lava il ponte
Non va a pescare, non è abbastanza forte
Ma ogni sera, quando tirano a sorte
Sta a guardare e lo sa
Che un giorno a lui toccherà
Di essere buttato in mare
Ha perso il respiro, questo pensiero
No, non lo lascia ormai più campare
E parla forte nella nave della morte
Non lascia dormire più nessuno
«Così non posso vivere
Aspettando ogni giorno di morire
Non ce la faccio, no»
«Aspetta», dicono gli altri
«Presto a lavorare incomincerai
Sarà naturale, vedrai
Le reti in mare butterai
E alla nave al mattino
Tornerai, la mano al capitano toccherai
Toccherai le vesti e il cannocchiale
L’affanno di questi giorni perderai
Non ci pensare, vedrai»

Invece lui ci pensava
Spinto dalla paura ed alla sera
Con l’aria pura decise di fuggire
Chiamò piano
Il vecchio, il suo amico più caro
Senza il quale
Proprio non sapeva stare:
«Parto, vieni con me, andiamo a
Cercare un posto nel mondo
Dove non si debba più morire
Per vivere e vivere per morire»
«Resta», rispose il vecchio
«Non puoi cambiare quanto è naturale
Prima o poi tocca a tutti noi»
Il giorno dopo il capitano
Lo mandò a chiamare
Per poterlo iniziare a lavori di mare
Il ragazzo andò con gli altri
A compiere il rito
E si sentì d’un tratto rassicurato
Era svanito in un momento
Tutto il dolore accumulato dentro
La paura e il rimpianto
Erano svaniti come d’incanto
Una sera al ritorno
Cercò il suo vecchio amico
E non lo trovò più:
La sorte era toccata a lui
Chiuso in disparte si preparava
Alla propria morte
Il giovane bello e bruno e rassicurato
Si svegliò come da un lungo sonno malato
E il vecchio terrore gli ritornò tutto
Nella mente e nel cuore
Di colpo si decise
E senza più ragionare
Corse nella cabina
Foderata di velluto
Il capitano era lì con il capo
Appoggiato sulla mano
Dormiva nella poltrona coi braccioli d’oro
Il giovane bello e bruno
Gli strinse le mani forti attorno ai collo
Finché lo sentì freddo per la morte
Poi tolse le vesti al capitano
Le indossò e di mano gli prese il cannocchiale
Che tiene lontano il male
Era mattina, andò sul ponte
Sulle spalle il capitano
Lo calò nel mare
Tenendogli le mani sulla testa
Poi fermo, sempre guardando lontano
Sentì la ciurma prendersi per mano
Compiere il largo giro
Guardare fisso il sole
Toccare il cannocchiale che tiene lontano il male
Quella sera a un altro toccò in sorte la morte
Il ragazzo con le vesti del capitano
Nella cabina foderata di velluto
Attese invano un altro giovane forte e bruno
Che lo stringesse fino a farlo morire
E al mattino lo buttasse in mare
Lo buttasse in mare

C’è in Calabria

Al sud c’è il rituale che fa accettare
La miseria, la fame, la disoccupazione
Al nord il rituale che fa accettare il padrone
È un rito nuovo ma nella sostanza eguale
Canto la canzone del morto nel cantiere
E penso a quel signore alla televisione
Con l’occhio smorto e con il doppio mento
Padrone di non so quale stabilimento:
«Certo, è un peccato, questa alta percentuale
Di morti sul lavoro riduce il personale
Bisogna acquistarne di nuovo e vale meno
Dev’essere istruito, informato e preparato
Mentre quello morto ormai era addestrato
Certo, è una perdita, certo, sicuro
Bisogna che muoiano di meno sul lavoro
Bisogna che muoiano di meno sul lavoro»

C’è in Calabria una bambina col sarcoma
La madre ha risparmiato sulla fame
La madre ha risparmiato sulla fame
Per la lapide che ha fatto già intarsiare
E il lenzuolo ricamato per la bara
E il lenzuolo ricamato per la bara
Gira di notte con la bambina in collo
Che sono mesi che ha smesso di dormire
E insieme se ne vanno incontro al sole
Che ogni mattina tarda di più a salire
Il rito costa soldi e sudore
Ma accontenta i nostri pianti
Giriamo attorno al capitano
E invocando la morte poi moriamo
Quanto dolore stupido e crudele
Accettiamo che potevamo evitare
Abituati come siamo ad accettare
E per non morire farci buttare in mare
E per non morire farci buttare in mare
E per non morire farci buttare in mare

L'Italia gran bel paese

Italia, quanto sei lunga
Italia, quante chiese!
Sembri dire: «Ogni scherzo vale»
Per non farti troppo male
Italia, quanto sei lunga
Italia, quante chiese!

«Gran bel paese!», Dice in piedi davanti al finestrino
Un contadino costretto ad emigrare
Ha due figli in Germania con la sorella
E due al paese con il fratello
Il più piccolo lo porta con sé a Zurigo
Nelle bianche baracche di ferro smaltato
La moglie sta a cottimo da cucitrice
Il bambino lo tiene una vicina a pagamento
«Solo per vedere una volta l’anno
La famiglia riunita per un momento
I miei pochi soldi se ne vanno
Passo la vita per un ideale
Che dovrebbe essere naturale
Ma perché in questa bella terra nostra
A noi maledetti non ci fanno stare?
Io non ho fatto niente di male
Ma perché proprio a me è toccata questa sorte?
Io non ho fatto niente di male
Ma perché sono nato maledetto fino alla morte?
Io non ho fatto niente di male
Ma perché proprio a me è toccata questa sorte?

In quel pezzo che corre tra Pesaro e Forlì
Sono appagati, silenziosi
Come una chioccia, la cooperativa
Fornisce, dispensa, regola e controlla
Ma gli sguardi dei braccianti restano opachi
Curve le schiene dei coltivatori diretti
A vederli piegati con le carte in mano
Viene da pensare: «Poveretti!»
A vederli piegati con le carte in mano
Viene da pensare: «Poveretti!»
«Allegria, allegria!», Strillava l’ottimistico
Altoparlante di una giardinetta
Nelle strade deserte di Cesena, all’alba
Che seguiva i tragici fatti di Avola
Il giornale con testata nera cubitale
Diceva: «Lutto nazionale»
Tutti chiusi in sezione a ciclostilare
Manifesti e volantini per deprecare
Ma all’alba, nella nebbia della città deserta
Gracchiava tenace la giardinetta:
«Allegria, allegria, tutti a ballare!»
Era la casa del popolo, naturale
Che doveva rifare i suoi novanta milioni
Di sala da ballo con illuminazione
Doveva rifare i suoi novanta milioni

Un giorno ci sveglieremo

In treno, un militare con gli occhi marroni
Mi offre i dolci fatti col vino
Viene da Nuoro, viaggia da ore
Va a Trieste militare:
«Noi», dice piano, «siamo italiani
Solo per le tasse o fare il militare»
«Vai al nord a lavorare», interrompe un siciliano
Con un gran vocione
«Lavori quindici ore, ti pagano di meno
C’è gente pagata per pianificare
Sulla nostra fame e poterci speculare
Tutto hanno previsto, ma io vi dico questo
Tutto hanno previsto, ma io vi dico questo:
Un giorno si sveglieranno che il sole sarà lontano
E noi avremo una terribile forza in mano
Non sentiremo il freddo, già smorti come siamo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo
Sui loro freddi corpi foderati di velluto
E imbottiti di stufato
Piangeranno e noi diremo: sopportate
Il volere del Signore, perdonate
Chi vi offende, fate buon viso
La ricompensa è il paradiso
Così diremo e cresceremo
E cresceremo di peso
E avremo i figli belli, biondi, ricciuti
E la mattina andremo a lavorare
Andremo a lavorare
E con la moglie devota a casa a cucinare
Quand’è la sera con la camicia appena lavata
Andremo a fare quattro passi, quattro passi in paese
Saluteremo e ci faremo
E ci faremo salutare
La sera all’osteria, dopo la partita a scopone
Guardandoci le mani chiameremo il cameriere
E con la voce forte potremo offrire da bere
Guardandoci le mani chiameremo il cameriere
E con la voce forte potremo offrire da bere
Un giorno si sveglieranno che il sole sarà lontano
E noi avremo una terribile forza in mano
Non sentiremo il freddo, già smorti come siamo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo»

Siamo arrivati

Siamo arrivati: «Addio compare!»
Vado alla casa del popolo a cantare
Questa sera non si balla per colpa mia
C’è un’atmosfera di carestia
Non dibattono, scappano: non si può sapere
Cosa ci può venire in mente di dire
Finire bollati per sempre da cinesi
Sono scherzi da preti, proprio in questi paesi
«Dio can! Signore, fate presto a uscire:
Chi è quell’incosciente che ha intoppato la porta?
Permesso, permesso, fate passare
Sono un lavoratore, devo andare a dormire
Sono un lavoratore, devo andare a dormire»
Penso a Cagliari, dove i lavoratori
Hanno passato sette notti di fila
A discutere, parlare delle lotte da organizzare
Penso in Sicilia, che volevano imparare
Tutte le canzoni «perché possono servire»
In Puglia, che di notte incontro un ragazzetto
Visto prima a teatro:
«Ancora in giro, non vai a dormire?»
«Vado a lavorare, di giorno ho da fare
Il lavoro politico e la scuola serale»
E finalmente mi viene da dire:
Ma allora è proprio vero che ci vuole la fame
Lo spettro della morte per lottare?
Niente da perdere, questo ci vuole
Niente da perdere, questo ci vuole
È arrivato il papa a Sant’Elia
Circondato dalla polizia
È arrivata l’Italsider nel meridione
Schiaccia una cultura, sfrutta una situazione
Niente è cambiato, da bracciante affamato
Passi intanto a operaio sfruttato
Niente è cambiato, niente è cambiato
Niente è cambiato, niente è cambiato!

Siamo in Romagna, comincio a cantare:
Pochi e distratti, non stanno a sentire:
Allora dico: «Che ci state a fare?»
«Compagna», mi risponde un vecchietto risentito
«Io sono qui per disciplina di partito»
«Compagna», mi risponde un vecchietto risentito
«Io sono qui per disciplina di partito»
Allora è proprio vero che ci vuole la fame
Lo spettro della morte per lottare
Niente da perdere, questo ci vuole
Niente da perdere, questo ci vuole
Il corteo si muoveva lentamente
Quelli in testa si voltano per dire
Lo slogan deciso da strillare
E tutti insieme, aprendo la bocca:
«Il diritto di sciopero non si tocca!
Il diritto di sciopero non si tocca!»
Ma quando alla coda è arrivato
Per la strada s’era cambiato:
«Diritto o non diritto, lo sciopero non si tocca»
Era mano a mano diventato
«Diritto o non diritto, lo sciopero non si tocca»
Così s’era lo slogan trasformato

C’è a Giulianova

C’è a Giulianova una donna senza latte
Il bambino le muore di fame
Così con un’amica fanno la fattura
A un’altra donna che ci ha la creatura
Bella e grassa di qualche mese
E il latte che le corre da buttare
E insieme si mettono a cantare:
«Creatura, creatura de lu signore
Ti guardo a lu mattine
E questo latte che ci dai a lo tue bambine
Da oggi, domani e sempre non ce lo puoi cchiù dare
Vieni, latte, da me, lassa la donna mora
Vieni, latte, da me farmi signora
Vieni, latte, da me, lassa la donna mora
Vieni, latte, da me farmi signora»
Invece di rubarci il latte fra di noi
Facendo un gran giro attorno al capitano
Perché non giriamo attorno alla centrale
Che almeno il soggetto sia un po' più diretto?

A Canosa un vecchietto mi canta questa canzone:
«Guarda la ragazza, quella che vuoi pigghiare
Metti la sausizza, mettila ‘nt’a lu pane
Così ti vede ricco, ti vede gran signore
Metti la camicia come lo tuo padrone
Guarda la ragazza, quella che vuoi pigghiare
Metti la sausizza, mettila ‘nt’a lu pane
Così ti vede ricco, ti vede gran signore
Metti la camicia come lo tuo padrone»

Un po’ di qua e un po’ di là

A Gonzaga c’è l’accelerato sgangherato
Sale una donna con due bambini
Vede la chitarra, chiede della Daffini
Proprio l’anno scorso c’era il suo funerale:
Dietro l’argine del fiume
Un po’ di qua e un po’ di là
E davanti noi in due file
Un po’ di qua e un po’ di là
E la bara con il prete
Un po’ di qua e un po’ di là
I nipoti, i figli e il marito
Un po’ di qua e un po' di là
E i compagni del partito
Un po’ di qua e un po' di là
Le orfanelle delle suore
Un po’ di qua e un po’ di là
Le corone con i fiori
Un po’ di qua e un po' di là

Dice il prete:
«Accogli, Signore, l'anima della tua serva Giovanna»
«Mai fatto la serva a nessuno», dice il marito
«Taci papà, non vuol dire niente
È una pura formalità»
Dice il figlio emigrante

È una pura formalità che si fa
Un po’ di qua, un po’ di là
È una pura formalità che si fa
Un po’ di qua, un po’ di là
Certo, si sa
Ma non è vero che non vuol dire niente
Vuol dire secoli di miseria, di morte e di dolore
Accettati come se fosse una cosa naturale

È una pura formalità che si fa
Un po’ di qua, un po’ di là
È una pura formalità che si fa
Ma finché un giorno cambierà

Quel giorno ci sveglieremo che il sole sarà lontano
E noi avremo una terribile forza in mano
Non sentiremo il freddo, già smorti come siamo
E allora piangeranno, mentre noi cammineremo
Quel giorno ci sveglieremo che il sole sarà lontano
E noi avremo una terribile forza in mano
Non sentiremo il freddo, già smorti come siamo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo
Allora piangeranno, mentre noi cammineremo

Giovanna Marini - La nave (è una pura formalità) Songtext

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